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I puristi, i filosofi, gli ortodossi sono invitati alla lettura solo se promettono di cogliere l'amore immenso che mi anima nell'occuparmi di volontariato, ma questo mese parlerò della forza di una marca (in inglese brand), e di come si debba e si possa fare “marketing del volontariato”, quasi come se le associazioni fossero prodotti da comprare (e vendere).

Quando pensiamo ad Avis pensiamo al sangue, alla raccolta di sangue per chi ha bisogno, e questo anche grazie alle campagne di comunicazione finalizzate alla cultura della donazione (famosissima e tutt'oggi commovente nella sua semplicità quella con Glauco Onorato nel ruolo del donatore).

Avis da molti anni è sinonimo di solidarietà, di servizio per gli altri, di dono. Con tutta la pubblicità e le risorse investite, Avis è una brand, e comunicare con una brand può essere molto utile anche quando non promuove se stesso e la sua mission primaria, ma “prodotti di solidarietà collaterali”, quale è il servizio civile.

Per un pubblicitario una campagna per Avis è una campagna facile, perchè la brand sostiene tutto; è una campagna semplice, perché la brand parla da sola; è una campagna efficace, perché la brand così conosciuta è di per sé efficace.



In questa campagna sul servizio civile in Avis osserviamo inoltre un trattamento molto pulito, semplice, lineare e di grande efficacia comunicativa: un modello che spesso vediamo in prodotti di largo consumo, finanziari, auto … insomma, una vera campagna pubblicitaria.

Non me ne vogliano i volontari, ma sono assolutamente d'accordo con questo trattamento: al di là ed al di fuori della ovvia condivisione degli obiettivi e delle finalità, devo ammettere che quando una associazione di volontariato comunica con regole “da prodotto commerciale” la pubblicità che ne risulta è efficace.
Non me ne vogliano le associazioni, anzi, ma ogni volta che il volontariato “si vende”, cioè fa mostra di se stesso con le regole di chi lo deve comprare, l'azione di comunicazione è forte ed efficiente.

E' un mondo strano, questo, ma anche molto semplice: una associazione (il produttore) vende ad un potenziale volontario (il cliente) il suo prodotto (stare bene facendo del bene) e chiede un prezzo (il tempo del volontario stesso). La promessa di comunicazione è chiara: farai fatica, ti impegnerai, spenderai il tuo tempo, ma alla fine ti sentirai più appagato, forte, maturo.

In questo caso poi la comunicazione promuove un investimento in tempo a chi rischierebbe di buttarlo via (i giovani,) e quindi tende a valorizzare il tempo stesso facendo una scommessa su questo elemento di crescita del giovane (vi ricordo che in questo caso il giovane è il cliente…).
Il marketing del volontariato è proprio tutto qui: attrarre l'attenzione del “cliente”, suscitare il suo interesse, stimolare il suo desiderio, spingerlo all'acquisto (proprio come il marketing delle sottilette…).
Una sola piccola nota critica è sulla foto: corretta la struttura di comunicazione, difficile la decodifica (è complicato infatti capire che quelle frecce rappresentano la perdita di tempo che si vuole esorcizzare).
Molto corretti invece i testi, la loro brevità ed efficienza sintetica, ottimo l'uso del colore verde (segnaletico e legato alla gioventù padrona della speranza).

Basta quindi una foto e un po' di testo sotto per fare una bella pagina pubblicitaria? Forse se sei Avis, cioè se sei una marca, se comunichi come una marca.
Molte associazioni di volontariato sono già “marche”, e molto affermate (pensiamo alla sinonimia ambulanza-misericordia, ed alla notorietà delle Pubbliche Assistenze solo per fare due esempi) ma spesso le associazioni non comunicano da marca, cercando anche volontariamente un profilo basso che sembra più adatto al “prodotto-volontariato” (già questo accostamento ha in sè qualcosa di blasfemo).

Eppure… la pubblicità di una brand è più facile ed efficace... la pubblicità crea le marche… le marche attraggono meglio il target-cliente… i clienti comprano i prodotti… le marche crescono in termini di visibilità…

Alla prossima e… fate pubblicità!

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