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Quando una campagna è efficace (e questa lo è) si vede ad occhio nudo. La campagna è della Fondazione Exodus (2002) ed è una delle 2700 raccolte nell’Archivio di Comunicazione sociale. Il tema della campagna non è nuovo, anzi… è antico ma ancora irrisolto, e nelle grandi città le associazioni di volontariato che lavorano su questo disagio fanno fatica a portarlo ‘fuori’.

In qualche modo la nemesi è quindi la seguente: questo tipo di disagio (proprio perché estremamente pubblico-alla luce del sole) non va posto all’attenzione, meglio non vedere, fare finta di non accorgersi… Ecco che allora una campagna “promozionale” è invece benvenuta perché cerca di battere questa indifferenza (rompendo una volta di più lo stereotipo).

I toni di voce sono quelli abituali, quelli che tecnicamente (tecnicamente in termini pubblicitari) si addicono a questo tipo di campagne: foto in bianco e nero, volti e situazioni crude e “sparate” in primo piano, una sottile ironia nei testi che rimanda a iconografie classiche (la fermata, il binario morto, i poveri Cristi, ecc).

Che cosa però rende efficace questa campagna? A mio parere due sono gli elementi da sottolineare: un supporto visivo chiaro e senza possibilità di equivoci, ed un artificio grafico (semplice ed ulteriore) che pur nella sua apparente semplicità cattura l’attenzione e rende il tutto molto leggibile (anche se con un tono di voce più sfumato).

L’elemento visivo è la panchina, così chiaramente identificabile con la stazione centrale di Milano, che è riconoscibile anche se coperta dalle persone protagoniste. Quella panchina non è mai vuota (neppure in questa foto lo è) ma ognuno se la può ricordare vuota. Perché?

Perché ognuno l’ha guardata soltanto quando era vuota, nelle mille e mille volte in cui c’è passato davanti, e questa visibilità nuda della finzione (la campagna), contrasta con la invisibilità apparente (la realtà) delle persone sedute, ed è quindi una prima scossa all’indifferenza.

L’artificio grafico è invece la targhetta da campanello su cui sono incisi i messaggi (nome e numeri dell’associazione, la frase – pay off, ecc): una targhetta da campanello indica una residenza, una forma di stabilità, e mettere la targhetta sul campanello significa asserire “io vivo qui”.

Dando per assunta questa decodifica (ma ognuno di noi è libero di decodificare diversamente), il messaggio risulta ancora più potente, con storie che si raccontano nella grana dell’immagine (antica, ma non vecchia), nella mimica delle pose (statiche, ma non ferme), nello sguardo lucido e spaesato che mille volte passando dritti non vediamo.

E’ l’estrema finezza dei due elementi distintivi, finezza che veicola molto meglio i contenuti rispetto all’aggressività, che permette all’immagine di sfondare i filtri percettivi di chi guarda, in una parola sola “colpisce”.

Questa campagna ha quindi un chiaro sottotitolo: caro cittadino di Milano (perché è Milano, anche se non c’è scritto…), da tempo immemore sai dove sono (perché ci sono, anche se tu non li vedi). Ora che hai visto, scuoterai la tua coscienza?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alla prossima e… fate pubblicità!

 

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