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Il tema della partecipazione alla vita pubblica del nostro Paese sta investendo da qualche anno strutturalmente anche molte organizzazioni di volontariato. Non possiamo nasconderci il fatto che, tale tema, spesso sia trattato ancora in maniera superficiale o retorica: questo fa il paio con una ipotesi culturale di governance che si fonda sul lasciare spazi sempre più residuali ai cittadini per esprimersi come protagonisti nella costruzione delle politiche e nella definizione delle scelte collettive.

A partire da quanto detto, parlare di partecipazione e verificare la relazione esistente tra giovani, partecipazione e innovazione, vuol dire condividere dei presupposti valoriali e culturali ben precisi.

A. Andare al di là dei significanti e di interpretazioni superficiali dei concetti. Si parla spesso di giovani o di innovazione, ma quanto si conoscono davvero le riflessioni più approfondite ed interessanti attorno ai due termini? Sappiamo definirli in maniera condivisa, dai punti di vista teorico, esperienziale, fenomenologico? Uno dei problemi è proprio questo: facciamo fatica, anche nelle nostre associazioni di volontariato, ad avere una visione ed una chiave di lettura sufficientemente raffinate per restituire dignità contenutistica e valoriale a dei termini che ormai vengono masticati in fretta da tutti ma mai davvero digeriti.

B. Coniugare capacità di declinare un pensiero organizzativo in termini strategici, gestionali, operativi e valutativi. Anche laddove fossimo in grado di concordare sulle definizioni e sui contenuti, rimane da risolvere una questione non da poco, specie se parliamo di organizzazioni: sappiamo costruire delle strategie e delle pratiche partecipate nella nostra organizzazione e sul territorio? Sappiamo, poi, definire un assetto (strutturale, amministrativo, operativo, programmatico) che ci permetta di gestire investimenti, evoluzioni, azioni organizzative in una direzione precisa e concordata? E ancora: le strategie ed i programmi devono diventare scelte operative sostenibili e finalizzate a degli obiettivi. Siamo sicuri che tale passaggio sia scontato? Finiamo con l'annosa questione della valutazione: abbiamo davvero voglia di capire quanto le “politiche interne” (ci riferiamo sempre alle tre parole chiave: giovani, partecipazione, innovazione) della nostra organizzazione producano cambiamenti e siano efficaci? Siamo in grado di riorientare la rotta?

C. Tenere insieme sensibilità, obiettivi condivisi, metodo. Misurarsi con i primi due presupposti vuol dire anche darsi un metodo, esplicitare un approccio all'organizzazione. Vuol dire darsi delle regole, dei principi di lavoro. Ci rendiamo conto da soli che tutto ciò spesso viene confuso con procedure e burocrazia, diventa automatismo organizzativo o – su un fronte opposto – entropia, disordine. Non è per niente facile definire una strategia, un assetto organizzativo e poi declinare codici, comportamenti, principi, processi, linguaggi, tempi, modi di fare e di essere che davvero permettano di sviluppare i temi generatori che stiamo trattando nei servizi, nelle nostre esperienze volontarie, nei processi di accoglienza, formazione e contatto con i giovani.

Un'ultima considerazione che ha, beninteso, valore augurale: solo se capiamo che si tratta di questioni centrali, saremo in grado di garantire la sopravvivenza stessa della nostra struttura, evitando una difficoltà e una fatica enorme di posizionamento e collocazione nel dibattito più complessivo sul volontariato del Terzo millennio.

Pier Paolo Inserra è ricercatore sociale e consulente di Anpas nazionale.
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